Finita la stagione della chiusura dei bilanci economico finanziari della maggior parte delle aziende inizia quella della classificazione dei conti, con relativa divulgazione mediatica.
È indubbiamente molto interessante assistere al susseguirsi di eventi e pubblicazioni relativi ai risultati dichiarati dalle nostre imprese TOP. Quello che però trovo limitato è considerare volume d’affari e profitto come gli unici indici di classificazione del merito.
La domanda che mi pongo è questa: è giusto premiare le nostre migliori aziende in funzione di quanto fatturano e fanno guadagnare ai loro proprietari oppure sarebbe meglio classificarle nella misura in cui generano lavoro, valore sociale e prosperità per il territorio?
In un’era in cui le aziende non possono più essere solo delle mere macchine da soldi e stanno assumendo un ruolo sempre più strategico nella nostra società, trovo davvero superato continuare a contare per abitudine solo i soldi, come si faceva nei secoli scorsi.
Ritengo molto importante iniziare a valorizzare e far conoscere altri aspetti qualitativi delle nostre aziende, ad esempio misurando quelli relativi alle ricadute sociali delle scelte sul lavoro:
Sono dati che credo potrebbero essere raccolti e classificati per definire una classe di merito e quindi le nostre migliori aziende.
Volume d’affari e profitti non sono direttamente correlati all’impatto sociale e ambientale: ad esempio è oggettivo che la generazione di lavoro di qualità nel territorio di appartenenza (valore distribuito, condiviso, collettivo) abbia una ricaduta per la nostra comunità molto maggiore della generazione speculativa di profitti per i proprietari delle società (valore finanziario, concentrato in poche persone).
Anche a causa di una normativa del lavoro purtroppo ancora troppo rigida e ambigua spesso gli imprenditori italiani riducono al minimo l’assunzione di persone a tempo indeterminato e preferiscono avere meno dipendenti possibile, sostituendoli con il precariato o con la terziarizzazione di produzioni e servizi fuori dall’Italia. La conseguenza è un progressivo impoverimento economico, previdenziale e fiscale del nostro Paese.
Sono convinto che se vogliamo davvero combattere la crisi demografica e la fuga dei cervelli all’estero per rilanciare la prosperità dei nostri territori dobbiamo cambiare anche questa cultura, riportando al centro le persone e il lavoro di qualità.
Certamente serve l’aiuto della politica e degli enti regolatori, ma è importante partire subito anche dai media dando un segnale diverso, positivo e costruttivo. Vale per gli imprenditori, che possono decidere chi, dove e come assumere, come per i lavoratori, che hanno il potere di decidere se rimanere in Italia oppure no. Vale anche per tutti i cittadini e contribuenti, al fine di costruire un nuovo patto sociale di reciproca fiducia collettiva con le imprese e lo Stato.
Il censimento dei titoli e delle certificazioni che definiscono e verificano la responsabilità d’impresa potrebbe essere un altro elemento importante da sostenere per aiutare l’opinione pubblica a farsi un’idea sulla qualità delle nostre imprese.
Ne esistono vari, molto autorevoli, come ad esempio:
Nel Veneto ci sono oggi 39 società certificate B Corp su un totale di oltre 300 in Italia (in crescita), dietro Lombardia con 115 ed Emilia Romagna con 46 (fonte: B Lab Italia). Non a caso queste tre sono le regioni che costituiscono il nuovo triangolo industriale. Le società benefit italiane hanno registrato un trend di crescita importante, pari al 37,8% del 2023 sul 2022, quelle venete sono 359 su un totale di 3.619.
Le loro migliori performance rispetto alle non-benefit sono evidenziate in una recente “Ricerca Nazionale sulle Società Benefit” anche sul piano economico: una più alta produttività (nel 2022 valore aggiunto per addetto pari a 62.000 euro contro i 57.000 euro) e livelli di crescita più elevati nell’EBITDA margin con il rapporto tra margine operativo lordo e ricavi che è passato da 8,5% nel 2019 a 9% nel 2022 per le società benefit e da 8,1% a 8,3% per le non-benefit.
La ricerca evidenzia, inoltre, come le società benefit riconoscano maggiormente il valore del capitale umano (costo del lavoro mediano per addetto di 41.000 euro contro i 38.000 euro), restituendo dunque una maggiore ricchezza ai lavoratori.
È un modello win win, che offre l’opportunità di un Rinascimento economico, sociale e ambientale ai nostri territori e che va fatto conoscere e apprezzare per favorire lo sviluppo dell’enorme potenzialità di questa nuova cultura d’impresa e del lavoro, al tempo stesso più competitiva e sostenibile.