Come la marea, sale e scende il trend dello smart working.
Oggi siamo in piena fase di riflusso e molte aziende, come Amazon, Meta e – paradossalmente – perfino Zoom, stanno facendo precipitosa retromarcia sul lavoro remoto, cercando di riportare i propri lavoratori in sede avendo perso il loro ingaggio.
Il ritorno però non è affatto semplice, le persone si sono abituate ai vantaggi di un lavoro alleggerito da vincoli così importanti e non sono tutti felici di riprendere le vecchie abitudini.
La materia è delicatissima, soprattutto per organizzazioni con molti collaboratori, in un momento in cui non mancano le alternative sul mercato del lavoro.
Sono convinto delle decisioni che abbiamo preso in Aton anni prima della pandemia e riconfermate negli anni successivi: ognuno è libero di organizzarsi il lavoro dove e come ritiene più opportuno al fine di portare avanti al meglio gli obiettivi e il bene comune, in funzione del proprio ruolo e del proprio contesto, mettendo al centro la persona.
Credo che le aziende debbano investire su uffici e persone per offrire ai propri collaboratori la migliore esperienza possibile sia in sede che da remoto.
E’ però importante coltivare anche la comunità, motivando le persone a condividere più possibile la presenza fisica per favorire lo sviluppo di relazioni umane e professionali più complete, sane e gratificanti.
Solo in questo modo si può costruire un gruppo in grado di esprimere insieme il meglio del potenziale di ogni suo componente.
Ben venga lo smart working, che dev’essere però bilanciato bene rispetto al lavoro in presenza in funzione dei numerosi fattori specifici che influiscono sulla condizione di ogni singolo lavoratore: