Il tema dell’inclusione ha da sempre un ruolo centrale nella nostra cultura aziendale. In ogni attività della nostra vita professionale ci impegniamo a garantire equità, attenzione e rispetto ad ogni persona.
Quest’anno, a supporto del percorso di formazione dedicato proprio a questo tema, la nostra coach Moira ha voluto farci un regalo. Durante l’ultima Palestra dei Coach di giugno, il nostro appuntamento mensile tra team leader, abbiamo affrontato il concetto di inclusione in un modo diverso dal solito: l’abbiamo toccato con mano.
Moira ha voluto farci sperimentare il vero senso dell’empatia, termine spesso abusato, facendoci mettere per davvero nei panni dell’altro. O, come dice sempre lei, facendoci fare “un giro nelle sue scarpe”.
Entriamo in una sala riunioni completamente oscurata e, dopo una breve introduzione alla nostra ospite Beatrice e a suo padre, spegniamo le luci, indossiamo una mascherina e ci immergiamo nel buio; e nelle loro voci.
Beatrice ha trent’anni, laureata in lingue con 110 e lode, insegna inglese nel liceo dove si è formata ed è una campionessa di paraciclismo. Con la sua voce ci accompagna lungo il racconto di alcune tappe della sua vita, personale e professionale.
Ci porta dentro le difficoltà quotidiane di chi, come lei, è cieca dalla nascita, ma anche dentro i suoi successi, le sue scelte, la sua determinazione.
Il suo racconto è efficace e coinvolgente, non vuole insegnare nulla, ma ci dona con generosità la sua esperienza fatta di fatica, di barriere, fisiche e relazionali, ma anche di conquiste, soddisfazioni, forza, di gesti potenti come un semplice “ci provo”, e della bellezza di tutte quelle mani che l’hanno aiutata a rendere possibile ciò che per tanti sembrava irrealizzabile: praticare sport, e diventare una campionessa di paraciclismo. Uno sport con una serie di implicazioni mai banali, tra cui non ultima quella di doversi affidare totalmente a qualcun altro.
Beatrice ha una forza disarmante. È forte, lucida, concreta. Sa essere tagliente, ironica, sorprendente. Ci fa ridere, ci fa commuovere. Ha carattere, ma conosce bene anche il valore della fragilità. Ci parla della possibilità di accogliere i propri limiti, anziché combatterli a tutti i costi, e della libertà che si può trovare nel chiedere aiuto, senza per questo sentirsi meno capaci o meno validi. Ci rivela che non sempre le risulta semplice farlo.
Nel suo racconto c’è poi un episodio che colpisce in modo particolare: Beatrice partecipa a una colletta per il regalo di un compagno di università, ma al momento della consegna, tra commenti, sorrisi e complicità condivisa, nessuno le racconta cosa stia accadendo. Nessuno le descrive il regalo, l’oggetto che lei stessa ha contribuito ad acquistare.
Si sente esclusa.
Nel buio in cui siamo immersi, quella scena è perfettamente nitida. E in quell’istante capiamo con forza che a non vedere, lì, non è lei. Sono gli altri. Siamo noi.
Una cecità non fisica, ma relazionale, emotiva. Una dimenticanza che nasce dalla distrazione, da quel dare per scontato che la realtà sia uguale per tutti.
Se dovessi descrivere l’inclusione, partirei proprio da lì. Non da una definizione, ma da quella scena. Perché includere vuol dire prestare attenzione.
E poi c’è con lei il padre: la sua presenza, il loro modo di comunicare, di beccarsi ogni tanto, rivela la forza di un legame potente, rafforzato anche dalla durezza della vita, ma pervaso dall’amore e la dolcezza di un padre, che sa farsi anche amico, supporto.
Praticare l’inclusione non è facile. Non esistono istruzioni, né regole valide per tutti. A volte si sbaglia, non si è all’altezza delle aspettative, proprie o altrui.
Ma ciò che fa la differenza è l’intenzione. E l’intenzione non può convivere con la distrazione.
L’esperienza con Beatrice ci ricorda il valore dell’ascolto attivo, e che ascoltare davvero significa anche saper fare domande.
Ci salutiamo, siamo un po’ silenziosi, i pensieri che ci pervadono sono tanti, questo incontro ha piantato un seme che spetta a noi coltivare.
Ognuno si aspetta qualcosa di diverso. Non esiste un solo modo di percepire il mondo. Non basta trattare gli altri come vorremmo essere trattati: serve trattarli come loro desiderano essere trattati.
Quest’esperienza ci ricorda che, a volte, per vedere davvero l’altro, non basta avere la vista. Serve mettersi nei suoi panni, farsi un giro nelle sue scarpe.
E, se necessario, chiudere gli occhi e spegnere la luce. ❤️
Grazie Beatrice, grazie Moira.
Grazie Aton.