Il grafico sopra indica il peso delle imprese familiari in alcune economie nazionali ed evidenzia quanto importanti siano soprattutto nei paesi latini e mediorientali. L’Italia col suo 94% è addirittura la prima al mondo. E’ un punto di forza o di debolezza? Il confronto delle performance tra aziende padronali e a capitale diffuso mi ha sempre attratto perché i due modi di fare impresa sono molto diversi
Credit Suisse da tempo analizza e mette a confronto l’andamento economico di questi due cluster e annualmente ne pubblica i risultati. L’ultimo è di questi giorni e l’evidenza sembra piuttosto chiara: le famiglie vincono nettamente sia in crescita che in profittabilità (leggi l’articolo qui).
La mia opinione è però diversa: forse nel passato si poteva ben distinguere queste due categorie, ma oggi e in futuro sarà sempre più difficile. Non è più una questione di proprietà famigliare quanto di governance. Il concetto di azienda governata come una monarchia per discendenza è a mio avviso largamente superato e assai pericoloso, il legame parentale in quanto tale di certo non assicura la scelta della migliore guida della stessa. Un detto popolare narra che la prima generazione imprenditoriale crea, la seconda sfrutta e vive di rendita e la terza distrugge definitivamente
Ne parlavo quest’estate con un mio caro amico, che non era d’accordo con me, e il confronto mi ha ancor più convinto. Non ho nulla in contrario sulla possibilità che un domani una o più delle mie figlie possano lavorare in Aton, ma non farò nulla per favorirlo. Se lo vorranno, dovranno avere i titoli per superare le selezioni e poi, in caso positivo, iniziare a farsi la dovuta gavetta con una progressiva verifica delle loro capacità. Diversamente il rischio è altissimo: sia per l’azienda, che potrebbe rapidamente risentirne anche in modo definitivo, che per i figli, i quali potrebbero trovarsi in seria difficoltà a portare avanti un’impresa senza averne acquisito i meriti sul campo, con il naturale continuo confronto con l’operato del genitore imprenditore e con una grande responsabilità nei confronti dell’azienda e dei suoi stakeholder (collaboratori, clienti, fornitori ecc).
I mercati più evoluti come Stati Uniti e UK sono molto sbilanciati verso strutture basate su capitale diffuso, spesso sono Public Company quotate in Borsa.
In Italia c’è un principio diverso, spesso l’impresa è un asset proprietario vissuto come una propria creatura, un figlio da cui è difficile pensare di allontanarsi o allargare la proprietà. Questi imprenditori onnipotenti spesso non hanno il focus solo sull’azienda ma anche sugli interessi personali e parentali, sul passaggio generazionale, sul pagare meno tasse possibile, sul preservare il patrimonio ecc.
Le Public Company invece si misurano costantemente con il mercato e spesso pagano lo scotto di una visione a breve termine legata all’esito delle trimestrali. Nella mia vita professionale purtroppo ho avuto a che fare ad esempio con le orripilanti storture dei fine quarter durante i quali i top manager delle aziende americane (ma non solo) sono spinti dai sistemi di incentivazione a vendere l’anima al diavolo per conseguire crescite forzose che trimestre dopo trimestre vanno a drogare i risultati economici
A mio avviso, l’azienda non deve essere considerata come un figlio, ma nemmeno un mero mezzo per fare soldi a tutti i costi e di cui liberarsi alla prima occasione. Nei momenti di crisi le imprese familiari hanno dimostrato una maggiore resilienza, salvaguardando investimenti e posti di lavoro, ma troppo spesso i rapporti tra i familiari e i loro diversi interessi non sono il massimo per la salute dell’azienda. D’altra parte le Public Company non hanno l’attaccamento e i valori di una sana azienda padronale.
È come discutere di monarchia e democrazia: la prima funziona meglio se c’è un re illuminato, la seconda è più lenta e complessa ma garantisce un maggiore rispetto degli interessi generali. Penso che il modello americano, adeguatamente calmierato nei suoi eccessi, sia più moderno ed efficiente, e non mancano certo gli imprenditori e le grandi ricchezze anche familiari, come si può dedurre dalla classifica dei Paperoni 2020:
Non ci sono re o imperatori in questa classifica, sono tutti imprenditori veri, più condottieri che gente di finanza. Bezos è il n.1 detenendo solo una piccola quota di minoranza in Amazon (12% circa) e nel momento in cui l’azienda che ha fondato ne avesse bisogno i soci lo sostituirebbero senza grandi problemi. Cosa che non può succedere nelle imprese familiari nelle quali si spera che l’imprenditore regga nel tempo e poi i figli abbiano le capacità e il buon senso di capire cosa sia meglio fare per il bene dell’azienda. Apple non è guidata dai parenti di Steve Jobs e i suoi familiari non risultano in questa lista.
Concludendo, penso che sia bene separare la gestione delle imprese dalle famiglie, scegliendo la migliore leadership indipendentemente dalla parentela, allargando più possibile il capitale e i contributi che possono venire dall’esterno anche in termini di Diversity, sia come soci di capitale che nella Governance, nel Management e nelle alleanze strategiche: soci, consiglieri di amministrazione, dirigenti, consulenti ecc, le nostre aziende dovrebbero essere meno chiuse/autoreferenziali, più inclusive e aperte al mondo. La parziale o totale contendibilità di un’azienda quotata in Borsa può essere una buona garanzia.
Ho provato a semplificare un argomento assai complesso esprimendo le mie idee, sperando possano essere utili ai lettori.
E tu che hai avuto la generosità e la pazienza di seguirmi sino a qui cosa ne pensi?