Fare impresa in Italia è un argomento complesso: l’imprenditore è spesso considerato un furbone arrogante che tende a non pagare le tasse, sfruttare i lavoratori, inquinare l’ambiente, imbrogliare clienti e fornitori.
Si tratta di un classico luogo comune, largamente diffuso nell’opinione pubblica nazionale, che mi ha sempre suscitato una profonda frustrazione.
A 28 anni, ottenuti con grandi sacrifici i miei primi successi professionali, decisi di vendere la prima auto, una piccola Volkswagen, per passare a una media BMW con lo scopo di percorrere in maggiore sicurezza i miei 80.000 km/anno. Non si trattava certo di una Lamborghini, ma vista la mia giovane età molti mi guardarono storto: qualcuno pensò che fossi un narco trafficante, altri un figlio di papà nato con la camicia, altri ancora uno che per forza barava sulle tasse. Avevo semplicemente investito una parte del plusvalore d’impresa nella mia attività.
Questo è solo un piccolo aneddoto che rappresenta però un diffuso preconcetto: sei un imprenditore, ergo sei un cinico opportunista. In tutti gli ambiti c’è del buono e del meno buono, non c’è ombra di dubbio, ma trovo profondamente sbagliato fare di ogni erba un fascio. L’importanza delle aziende nel nostro sistema capitalistico è fuori discussione, il successo delle imprese ha un valore fondamentale per il benessere di tutti, ma troppo spesso viene ingiustamente osteggiato con pregiudizio, senza curarsi del merito e delle conseguenze autolesionistiche.
All’estero gli imprenditori di successo diventano casi di studio, in Italia serpeggia il dubbio dell’imbroglio, cercando il modo per svilirne i meriti.
Mi sono sempre chiesto perché da noi ci sia un così diffuso scetticismo verso la classe imprenditoriale, senza riuscire a darmi delle risposte convincenti.
Ogni volta che porto le mie bambine a giocare in Ghirada (Treviso), mi guardo attorno e mi dico: che meraviglia! Questo è uno dei centri polisportivi più belli d’Europa, 22 ettari dedicati alla promozione dello sport e dei giochi d’infanzia. È stato realizzato dal Gruppo Benetton nel 1982 e da allora è aperto a tutti, gratis. La Ghirada è solo un esempio di sensibilità sociale d’impresa, insieme a vari altri asset importanti per la cittadinanza realizzati dallo stesso Gruppo come il Palaverde, Fabrica, la Fondazione culturale…
Va poi considerato quante soddisfazioni Benetton ha regalato nella Formula 1, nel basket, nella pallavolo, nel rugby, portando al successo il Made in Italy in tutto il mondo, in molte discipline. Senza parlare dell’enorme ricchezza in termini di occupazione generati dal core business dell’azienda.
Nonostante ciò, l’atteggiamento generale verso la famiglia non è mai stato generoso, nemmeno da parte dei trevigiani. Il dramma del Morandi a Genova, ad esempio, ha recentemente scatenato una emotiva caccia alle streghe che ha puntato dritta agli azionisti prima ancora di approfondire le responsabilità sull’accaduto.
Un destino simile ha subito Sergio Marchionne che dopo essere riuscito nel miracolo di resuscitare due zombie come Fiat e Chrysler venne osannato negli States e odiato in Italia. Certo, ha imposto molti sacrifici e cambiamenti dolorosi da sopportare, ma non c’era alternativa. Sarebbe forse stato meglio che Fiat morisse, trascinando nel baratro tutto e tutti? O che rimanesse artificialmente in vita sostenuta dai contribuenti, come successo per Alitalia o altri simili carrozzoni di Stato?
In America è chiaro a tutti che le imprese una volta costituite, gran bella cosa e per niente scontata, possono poi crescere o no. Produrre lavoro e opportunità o debiti e licenziamenti. Avere successo o fallire. L’unica certezza è l’imprenditore che investe e si sacrifica, talvolta rischiando tutto al punto da metterci letteralmente la vita, come hanno fatto i più noti Gilberto Benetton e Sergio Marchionne e i moltissimi sconosciuti che si sono immolati durante la recente crisi economica, trascinati alle estreme conseguenze dal senso di responsabilità.
Risultato? Questo atteggiamento anti-imprese ha spinto FCA (Fiat+Chrysler) e molte altre società a trasferire legittimamente la sede all’estero, se non a vendere la proprietà a stranieri, con tutte le negative ricadute del caso sull’Italia: meno occupazione, meno introiti fiscali, meno rilevanza del Bel Paese nel mondo.
Se non ci fossero questi signori a rischiare, investire, non dormire la notte e arrivare sino all’annientamento di sé stessi nello sforzo di condurre al meglio la propria azienda e i propri collaboratori non ci sarebbero lavoro e relativi stipendi, non verrebbero pagate le tasse che sostengono lo stato e i dipendenti pubblici etc.
Più sono sane le imprese, più stanno meglio stato e cittadini. Al momento non si intravvede alcuna alternativa praticabile, visti gli improponibili modelli teocratici mediorientali o i residuali regimi dittatoriali/statalisti che sopravvivono sparsi nel mondo.
Questo mio messaggio ha l’obiettivo di evidenziare e contribuire a superare questo arcaico preconcetto: siamo tutti sulla stessa barca, remiamo insieme verso il bene comune nel reciproco rispetto delle parti e delle leggi. Pensiamo positivo!
La partecipazione attiva delle aziende alla salvaguardia dell’ambiente, alla riduzione delle disuguaglianze, allo sviluppo del benessere dei collaboratori e della società, alla solidarietà, è in forte crescita. Su questi temi di altissima politica le aziende oggi possono avere addirittura un impatto maggiore degli Stati, sia per risorse disponibili che per efficacia esecutiva. Avendo fiducia nelle imprese e incoraggiando le migliori, le aiutiamo ad andare bene, a trainare benessere e progresso. Prestiamo attenzione nel giudicarle e distinguiamo con oggettività i loro comportamenti, selezionandole in base alle loro virtù, i frutti arriveranno per tutti.